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MARILYN MANSON

Sveglia alle due di mattina, direzione Open Air Gampel, Svizzera. E’ un lungo viaggio ma ci gasa il pensiero di ascoltare di nuovo Marilyn Manson dal vivo, tanto che percorriamo i circa 900 km con un’unica sosta. Arriviamo verso ora di pranzo e ci stupiamo di quanto siano piccole le aree dedicate ai due palchi rispetto alla mole di presenti. In effetti è un festival un po’ anomalo, con accostamento di gruppi disomogenei e i Volbeat come headliner. Dopo un primo giro ricognitivo ci accorgiamo che la maggior parte dei ragazzi è lì per bere, divertirsi e trascorrere un week-end dedicato allo sfascio totale. Buon per noi che prendiamo posto al centro della prima fila del main stage. Il primo gruppo a salire sul palco sono gli Yokko, una band svizzera definita atlantic wave che, come ci spiega (rigorosamente in Tedesco) una sorta di presentatore che li annuncia, ha vinto gli Swiss Music Award come best talent. Già dai primi brani ci accorgiamo di una somiglianza nemmeno troppo vaga con gli U2, soprattutto negli arpeggi di chitarra. Le canzoni sono orecchiabili, i ritornelli rimangono impressi tanto che cantiamo anche noi con loro, l’acustica è ottima. Nonostante la voce sia tutt’altro che potente, il cantante ha un buon timbro, e il gruppo è composto da musicisti tecnicamente validi, così l’ora in cui suonano risulta piacevole anche se molto soft. A seguire, dalla Florida, gli A Day To Remember, gruppo metalcore con esperienza decennale che risulta molto conosciuto e apprezzato dal pubblico locale. Stranamente, rispetto agli Yokko, l’acustica è pessima, i suoni sono bilanciati decisamente male e anche dalla prima fila il volume è minimo. Tutto sommato però il cantante si impegna moltissimo ad intrattenere il pubblico, incita a saltare, a battere le mani e tutti ci divertiamo. Ogni canzone ha una trovata scenografica: pioggia di plettri, palloni e rotoli di carta igienica che vengono lanciati sugli spettatori, stelle filanti, fumogeni, il cantante che si lancia fra il pubblico, fino ad arrivare ad un uomo mascherato che spara magliette con una pistola a pressione che raggiunge anche le ultime file. Musicalmente parlando non sono certo dei mostri di tecnica e i brani sembrano un po’ tutti uguali, ma dal vivo, se riesci a tenere il palco così bene, chi ci fa caso? Sono le 19.15. Si prepara il palco per lo show di Marilyn Manson. Ci fa molto strano che ciò avvenga con ancora la luce del sole, siamo abituati a vederlo come headliner, ma oggi non è così, sarà il penultimo, con appena un’ora e un quarto a disposizione. Pazienza. Lo staff stende davanti al palco un telo nero per non far vedere i lavori in corso ed il tipo di scenografia che si sta ricreando, ma, complice il vento forte, noi della prima fila riusciamo talvolta a sbirciare sotto e intravediamo un clown-pupazzo, reminiscenza del serial killer John Wayne Gacy, seduto accanto alla batteria. Sullo sfondo la doppia croce rossa. Alle 20.30 parte l’intro “Requiem” e quando lasciano cadere il telo nero attaccano con la potentissima “Angel With The Scabbed Wings”. Chi scrive prova un amore viscerale per Marilyn Manson, è quindi difficile esprimere a parole le sensazioni provocate dalla sua musica, dai suoi testi, dalla ritmica vibrante: immaginate un’esplosione atomica di emozioni ed il cuore che pulsa al ritmo delle slappate di basso di Twiggy Ramirez, unico rimasto accanto a Manson della formazione originale. La sezione ritmica è fondamentale nella musica del Reverendo, più ancora della parte elettronica. Soprattutto nei live, dove basso e batteria hanno il compito di coprire la carenza vocale che il nostro artista ha dal vivo. E non importa quindi se il capriccioso cantante appare alquanto appesantito e svociato, non fa nulla se sul palco cammina invece di correre e lancia improperi ai suoi collaboratori, tira oggetti sulla gente o impreca. Catalizza l’attenzione. Il palco è suo. E’ puro spettacolo e chi viene a vedere Manson vuole anche questo. Difatti tutto il pubblico grida, canta e poga esaltato mentre una dietro l’altra si susseguono “Disposable Teens”, “No Reflection”, “Hey, cruel world”, la cover di “Personal Jesus” dei Depeche Mode (primo singolo del Best Of ‘Lest We Forget’). Un po’ ci sorprendono i continui elogi al pubblico, non ci eravamo abituati, che si sia ammorbidito con l’età? Lo show prosegue a ritmi serrati e, fra un siparietto e l’altro che vede Manson lanciare le aste dei microfoni e i microfoni stessi, ribaltare le casse, portare sul palco una ragazza del pubblico in topless, vengono suonate “Mobscene”, “The Dope Show”, “Rock Is Dead”, “Mister Superstar”, la cover “Sweet Dreams” sempre cantata sui famosissimi trampoli, “This Is The New Shit” e si arriva alla pausa con “Irresponsible Hate Anthem”. Giusto il tempo di montare la consueta scenografia con palco rialzato ed arriva il bis con “Antichrist Superstar” (senza Bibbia stracciata questa volta) e “The Beautiful People”. E in un attimo è tutto finito. Poco, pochissimo, ma spettacolare. E quando stavamo realizzando che le luci si erano ormai riaccese, che Manson e i suoi ci avevano già detto arrivederci, un ultimo balzo al cuore quando afferriamo la set-list che viene lanciata. E’ nostra! Unico cruccio: nessuna canzone da ‘Portrait Of An American Family’, primo lavoro della band, che invece riteniamo di notevole qualità. La scaletta ha toccato tutti gli altri album, ad eccezione di ‘Eat Me, Drink Me’ e ‘The High End Of Low’.

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