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FRONTIERS ROCK FESTIVAL VI - DAY 2

Cala il sipario sulla sesta edizione del FRF 6. Dopo la giornata del sabato che entrerà nella storia grazie all’esibizione straordinaria (unica data europea!) di Alan Parsons Project - da annoverare anche l’ottima performance degli Hardline -  la domenica ha visto sul palco del Live Club la leggenda californiana dei Keel, per chiudere in bellezza con l’eleganza di Steve Augeri (ex Journey). Ma andiamo per ordine.

Ad aprire le danze i King Company, complesso finlandese autore fin ora di un paio di album dalle sonorità heavy robuste dalle sfumature powerose. Il quintetto rompe il ghiaccio senza indugi, portando a termine una performance senza infamia e senza lode, in un contesto poco indirizzato verso il metal, ma comunque apprezzato da un pubblico adulto: audaci.

A seguire un altro combo finnico di belle speranze, già attivi da qualche anno con ben sei album sul gobbo. Trascinati dal mattatore Kimmo Blom, i Leverage riversano sui presenti una buona dose di divertimento e di esperienza già maturata sui vari palchi internazionali. Il loro è un mix di melodia e rock muscoloso che tanto piace alle nuove generazioni. Le canzoni si apprendono facilmente grazie alla forza dei ritornelli e ad una linearità compositiva che non serba pretese: promossi.

I Fortune avrebbero dovuto rappresentare la sorpresa della sesta edizione del FRF. Attesi come i messia degli appassionati più strenui dell’AOR grazie a quel omonimo gioiellino uscito nel 1985. Ed è proprio questo il non-sense della loro, opaca (stanca…), esibizione. Riemergere dalle ceneri dopo quasi 35 anni di totale anonimato, con un nuovo lavoro lontano parente del debutto, e presentarsi su un palco davanti ad un pubblico attento di intenditori è quantomeno anacronistico. Larry Greene ed i fratelli Fortune offrono una prestazione statica, quasi priva di empatia, e le canzoni seppur belle (dal primo lavoro), ma suonate senza l’adeguata verve non catturano come dovrebbero: gessati

E’ arrivato il momento per i Keel, vere leggende del metal californiano, tra i prime-mover di una scena musicale che nel giro di qualche anno avrebbe conquistato il mondo intero, ma soprattutto rimarrà nel cuore dei vecchi fan conquistando anche le nuove generazioni. Ron Keel è un personaggio a tutto tondo e focalizza su di sé gli occhi dei rocker assiepati sotto al palco. "United Nations" e "Somebody’s Waiting" aprono le danze nel tipico class metal californiano, ma è con "Speed Demon", estratta dal debutto datato 1984, che si alza la temperatura. Ron è discretamente in forma vocale, non tutto gli riesce con la voce, ma poco importa, è un animale da palco e sa come intrattenere il pubblico. E’ stato il loro primissimo concerto in Italia, arrivati colpevolmente un po’ troppo in ritardo dalle nostre parti, ma sono riusciti a lasciare un buon ricordo del loro passaggio. "Streets Of Rock And Roll", "Push & Pull", "Tears Of Fire", "Because The Night" e quella "The Right Rock" cantata ad unisono con il pubblico rappresentano alcuni tra i momenti più salienti della sesta edizione del Frontiers Rock Festival: spacconi.

Per l’ora di cena è la volta dei Burning Rain, quattro rocker di razza che dalle prime battute chiariscono la loro posizione di band stra cazzuta. Doug Aldritch e Bles Elias non hanno certo bisogno di presentazioni. Lion, Bad Moon Rising, Dio, The Dead Daisies, Whitesnake e Revolution Saints solo per citare i progetti più importanti per il chitarrista americano, mentre Elias ha vissuto qualche stagione da rock star ai tempi degli Slaughter dei primi due album. Coadiuvati da Brad Lang (Y&T) e da un superbo Keith St. John (nei Medecine Whteel di Marc Ferrari), i Burning Rain hanno sciorinato una prestazione esimia; hanno suono, stile e l’attitudine di rocker esperti, gente che ha maturato esperienza in tanti anni trascorsi sui palchi di mezzo mondo. Il sound dei Burning Rain pesca a piene mani dagli Aerosmith e Led Zeppelin, rivisto in chiave ottantiana (alla Badlands), ed è forse l’unico limite di un gruppo del genere, ovvero riproporre uno stile portato al successo da molti alfieri e non basta essere affiatati ed iper professionali se non hai in repertorio almeno una hit da presentare: classici.

La carriera di Jeff Scott Soto è costellata da una pletora di progetti, spesso estemporanei, ma non è il caso dei W.E.T. nei quali condivide la partnership con Erik Martensson (titolare anche dei progetti Eclipse e Nordic Union). Soto è il classico animale da palco, ha fisicità, esperienza ed una gran voce, elementi che lo confermano come uno dei migliori screamer della scena hard & heavy mondiale. Il combo svedese sfrutta una produzione professionale a livello di suono e luci, e con un grande impatto in termini di potenza sul pubblico. I W.E.T. rispecchiano in pieno i gusti di chi ascolta oggi il metal, con tutti i suoi limiti (vedasi gli arrangiamenti ripetitivi), ma dal vivo sono sicuramente funzionali. ‘Earthrage’ (ultima fatica in studio), fa la parte del leone con molti gli estratti a partire da "Watch The Fire" ed "Urgent" che rappresentano al meglio lo stile galoppante dei nostri nordici.

Class man. I trascorsi di Steve Augeri con i Journey rappresentano la scelta nel ruolo di headliner e bastano le prime note di "Separate Ways (Worlds Apart)" per stendere e sciogliere il pubblico del Live Club. Augeri è chiamato per raccontare la storia dell’AOR, lui che per un paio di album e circa un lustro è stato il vocalist degli Dei autori di "Don’t Stop Believin". Un paio di brani per scaldare la voce e poi il resto l’ha fatta la classe dell’ex Tall Stories (dei quali ha riproposto un paio di tracce), personaggio disponibile, sorridente e cordiale, ha tenuto a ricordarci le sue origini italiane. In pochi si ricordano del suo passato fugace con i Tyketto per l’album ‘Shine’, omaggiato con un brano, ma poi con l’immortale "Lights" ha ripreso le redini infiammando i cuori impavidi dei presenti. "Higher Place", "Stone In Love" e così via ripercorrendo i passi più salienti: elegante.

Infine, un plauso all’impeccabile organizzazione che ha portato a termine senza sbavature due giorni di grande musica. Il Live Club e la crew si sono rilevati nuovamente all’altezza della gestione di un evento di tale portata. Non resta che darci un arrivederci alla prossima edizione: rock on!

Sabina Baron - foto

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