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VULTURE INDUSTRIES: THE DYSTOPIA JOURNALS

data

17/06/2008
90


Genere: Avantgarde Black Metal
Etichetta: Dark Essence Records
Anno: 2007

Nascono nel 1998 come Dead Rose Garden prima di cambiare il monicker in Vulture Industries dopo numerose modifiche di line-up, nel 2003, e si presentano nel 2007 col primo full lenght. Questa, in sostanza, la biografia della band norvegese, che propone un sound etichettabile come Black metal d'avanguardia. Lo so, lo so, tutti i fan del genere staranno per dire "quello degli Arcturus?" Ebbene si, la somiglianza dei nostri ai maestri del genere è a dir poco impressionante, e i rimandi a capolavori come 'La Masquerade Infernale' sono abbastanza evidenti. Ma nessuno faccia il grave errore di considerare i Vulture Industries gli ennesimi cloni senza personalità, che di avantgarde hanno solo la sedicenza. Il discorso avviato dagli Arcturus qui intraprende nuovi sbocchi, sicuramente meno 'ambient' e melodico, tuttavia. Mi rendo conto che possa sembrare odioso questo confronto all'americana tra le due band, però, purtroppo, trattandosi di un discorso musicale estremamente particolare, non si riesce a trovare termini di paragone più efficaci. Quando diciamo che i Vulture Industries sono meno 'ambient', intendiamo dire che il sound delle otto tracce di 'The Dystopia Journals' è ben più estremo e potente di quello degli Arcturus. Le linee vocali del vocalist Bjørnar Erevik Nilsen sono decisamente 'harsh' in certi passaggi, mentre in altri, la maggior parte, hanno una maestosa pulizia. Per quanto la sua voce sia bassa e baritonale (ben lontana dall'oscurità di Garm) possiede una dignità melodica, senza per questo scadere nella cantilena o nel cantato power, per esempio. Le chitarre hanno dei suoni particolarissimi, con effetti "spaziali" che ben si allineano alle eclettiche invenzioni di synth e tastiere. La batteria non è molto presente, dal momento che mantiene tempi piuttosto elementari, quasi tutti mid. Non che si richieda molto di più, non stiamo certo parlando degli Atheist o dei Dream Theater. Ciò che rende, tuttavia, l'album di facile approccio sono innanzitutto i suoni scelti per batteria e chitarre, che risultano ben preponderanti, catchy e aggressivi abbastanza da non mettere in fuga un non-fanatico dell'avanguardia e del progressive, senza poi contare il fatto che questi giovanotti di Bergen (la città-simbolo del black norvegese) conoscono perfettamente il limite tra genio e genialoide. Quindi la tecnica è dosata al necessario, così come l'inventiva, che non trascende mai nell'indigesto 'sclero' musicale che fin troppe band, purtroppo, portano avanti nella convinzione che la capacità tecnica possa sopperire alla mancanza di novità nel proprio sound. Non c'è che dire, un album fantastico, da non lasciarsi scappare per nulla al mondo, specie se si segue la scena.

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