ISTVAN: Istvan
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24/10/2016"Tutto quello che vuoi, uomo, è già prima in te: è soltanto questione che non sai tirarlo fuori", con questo disco la compagine romagnola si imbarca in questa missione "maieutica" di socratica memoria, riuscire a dare un suono ai propri sentimenti, far fluire la propria spiritualità mescolandola alle note. Il terzetto debutta con questo disco omonimo che ruota attorno alla figura di Johannes Scheffler, alias Angelus Silesius, poeta e mistico tedesco padre dell'aforisma citato nell'incipit di questa recensione. L'intero disco è un affresco paesaggistico denso di misticismo e spiritualità, dove alla melodia è affidato il compito di aprire nuovi e più vasti orizzonti onirici. Ciò che decisamente non manca in questo disco sono proprio i momenti più melodici e sognanti, si pensi all'eterea "Bohor", opener e varco ideale nella dimensione del sogno, o alla seconda traccia, "Mire", dove un riuscitissimo frangente melodico vicino alle influenze krautrock e prog-rock dal sapore Pink Floydiano, spezza un brano di matrice psych dominato dagli influssi elettrici degli Earth. Proprio questa abilità a proporre brani ricchi di spunti creativi fa si che nei capitoli più lunghi del platter ci si ritrovi in un turbine caotico di emozioni e di soluzioni melodiche che non appesantiscono l'ascoltatore, ma anzi ne catturano l'attenzione. Un classico esempio è dato da "Rundweg", brano di nove minuti dalle mille sfaccettature che fonde dolce melodia, appena sussurrata e dotata di un'aura di romanticismo, a sentimenti più violenti; accelerazioni psych-prog vicine alle proposte degli Earthless e pachidermici allentamenti propri del filone doom settantiano. Cambio netto di registro per la breve ma incisiva "Stonemill" che si presenta come intermezzo acustico dal dolce sapore celtico e malinconicamente epico. A chiudere questo disco dominato dalle note più che dalle liriche quasi del tutto assenti, se non per qualche piccolo accenno sottoforma di mantra evocativo, troviamo "Kenosis", traccia più lunga dell'intero LP, scandita da una linea di basso che diventa protagonista e che unitamente alla chitarra dal suono più acido, intesse una trama desertica, come da tradizione stoner a stelle e strisce. Ma il brano è un continuo divenire, alternando passaggi prog psichedelici ad alto contenuto acido e melodico a momenti dove la lentezza, la pesantezza e il fuzz della sei corde di Carlo Teo Pedretti giocano un ruolo fondamentale e preparano a scorribande lungo i sentieri polverosi delle highway. Il disco è senz'altro un prodotto ben congegnato e ben prodotto, studiato nella scelta dei suoni e nelle varie tipologie di distorsioni impiegate che si adattano perfettamente al sentimento che in quel momento il terzetto vuole esprimere. Pur se in presenza di un lavoro con scarso utilizzo di liriche e con una struttura dei brani che non segue i canoni tradizionali, ci troviamo al cospetto di una band che procede in modo ordinato e pragmatico, e non propriamente ad una "jam band", un buon bilanciamento tra ragione e sentimento.
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