FREE FROM SIN: II
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29/07/2018A distanza di tre anni dal loro primo lavoro omonimo, gli svedesi Free From Sin, con l’arrivo di altri elementi nella band (nata dall’incontro di Englund e Lamborg già nel 1985), aggiungono un secondo capitolo alla loro storia. Iniziamo subito col dire che, se vi piacciono gli Helloween, probabilmente questo album potrebbe anche piacervi, almeno in parte. Dico potrebbe se il buon Englund, quando sale sull’ottava superiore della sua estensione vocale, non sembrasse un incrocio tra Kiske con una colica renale e Blitz col mal di gola. Il che non è proprio un punto a suo favore. Dalla Scandinavia, in generale, sono arrivate tantissime ottime band, ed i Free From Sin potrebbero anche farne parte, se in mezzo allo stereotipo da nord Europa decidessero di mettere dentro anche qualcosa del loro. Si sente attingere a piene mani dai Purple, dai Maiden, dai già citati Helloween, da OzzY in qualcosa, e, inevitabilmente, anche dalla musica classica. Come se Malmsteen, in altri tempi, non avesse già abbastanza sfruttato quel filone. Diamine, lo hanno fatto addirittura i Gotthard. Quelle originalité. L’intro “Pandemonium”, imbastito con archi e vocina oscura di sottofondo sfocia in “Faces Of Christ”, e non nego che, già al momento del solo, inizio a vederle pure io le facce. Tutte, pure quelle di San Pietro, ed per buona misura San Giuseppe e Maria. Per favore, Mozart no. Non si può prendere “Eine Kleine Nachtmusik” e farla diventare una specie di tarantella scandinava. Gli dei vi guardano, cari Free From Sin, e sappiate che non approvano. Tuttavia, se “Faces Of Christ” ha delle linee vocali da orticaria e praticamente non ha un vero solo (lo ha scritto Amadeus, quindi non vale), in ogni caso il pezzo ha un certo tiro ed è, tutto sommato, scorrevole; la successiva “Mr. Blakk” la fa quasi rimpiangere. Le uniche note positive di questo brano sono i coretti con le voci femminili/infantili (difficile stabilirlo, per via degli effetti) e il fatto che, per quasi tutto il brano, il vocalist canti su tonalità evidentemente più consone al suo timbro vocale, risultando (lui) quasi gradevole. Per il resto, noia. Un minuto di intro (praticamente un tappetino mono accordo di tastiera) per “God Made Me Hate”, in cui, ahimè, la colica renale ritorna. Ed è un peccato, perché dal punto di vista compositivo è forse una delle migliori tracce dell’album. Trascinante il tempo, hammond à gogo, basso solido e presente, insomma, un buon pezzo sciupato da linee vocali assolutamente non all’altezza. Quando certi cantanti capiranno che non è necessario avere l’estensione di Dio per esprimersi degnamente, sarà sempre troppo tardi. L’apoteosi della noia, però, è ancora da venire. E ci si rimane doppiamente male, perché parte benino, questa “Devil’s Mule”: atmosfera a metà tra Purple e Zeppelin, incedere maestoso, finalmente una bella linea vocale. E poi, mannaggia, arriva il primo ritornello a dare un assaggio di quel che è da venire. Dopo il secondo chorus, altro che colica renale. Qui abbiamo un’influenza suina in piena regola, tra mugolii da mal di pancia e tormenti vari. I restanti quattro minuti (per un totale di otto!) sono utilissimi per preparare la macchinetta del caffè, dopo cena. Servirà per rimanere svegli. Una cosa veramente positiva di questo lavoro è il missaggio, che è davvero eccellente. Come dire, chi ha il pane non ha i denti, visto quanti dischi vengono rovinati da suoni veramente infelici. Inoltre, bisogna spezzare una lancia a favore dei neo acquisti della band, che sono tutti molto tecnici, capaci (almeno, in studio) e in grado di svolgere il loro compito senza risultare invasivi. Il resto dell’album è un ripetersi all’infinito dello stile delle tracce precedenti, qualche sprazzo interessante qui e là, come per il ritornello di “Gabriel” ma, in sostanza, molto, molto tedio. A questo punto il caffè è pronto ed io, che non sono affatto “libera dal peccato”, vado ad ascoltarmi di corsa 'Keeper Of The Seven Keys'.
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