FRANTIC FEST 2018
Arrivano ad un certo punto quei periodi dell'anno in cui è necessario staccare la spina della routine quotidiana e del lavoro assillante per godersi un po' di sano relax, magari affrontando un'esperienza che contempli il clima marino come il modo migliore per godersi al meglio le giornate. Tutto questo è dedicato alla popolazione media, che non vede l'ora che venga agosto per piazzare ombrellone, sdraio e Settimana Enigmistica, e poi tuffarsi in mare per ripararsi dalla calura. E magari portandosi le classiche radioline per ascoltare il solito tormentone estivo. Ci sono poi i metallari e i rockettari, che apprezzano sì l'aria di mare, ma se a questa venisse affiancato del sano metallo e del buon rock genuino, ecco che viene fuori l'esperienza perfetta. Esperienza che sia l'anno passato, che quest'anno, provano a fare gli organizzatori del Frantic Fest, che anche quest'anno viene ospitato nel confortevole spazio del Tikitaka Village di Francavilla al Mare (CH), tra campi da beach, aree campeggio e cocktail rinfrescanti. Un festival che, come l'anno passato, si sviluppa per tre giorni e che cerca di accontentare il più possibile i gusti più disparati degli ascoltatori, raccogliendo ugualmente ottime risposte di pubblico e di apprezzamento. Come si è detto, uno spazio confortevole e ben organizzato, con due palchi distinti che hanno permesso di mantenere un'organizzazione delle tempistiche ottimale; proposte di cibo e bevande all'altezza ed a costi contenuti (e con un uso intelligente dei token, che ha permesso libera scelta nei consumi), e molta offerta riguardante le distro musicali, con molti esponenti del commercio musicale che esponevano una quantità ingente di materiale musicale, tra CD, vinili, e gadgets vari. Il tutto ha permesso di creare un'atmosfera rilassante, tra ottima musica e chiacchierate con gli amici concertisti, in un clima ideale di festa.
In questa tre giorni di musica poderosa dove hanno partecipato quel popò di band di cui al flyer soprastante, in questa sede ci si concentra sulla giornata di giovedì 16 agosto, che è iniziata con il set degli Ananda Mida, gruppo proveniente dal Veneto dedito a coinvolgere il numero già nutrito di presenti accorsi nello small stage del festival, con il loro rock psichedelico strumentale che ricorda molto atmosfere e sonorità dei beni decenni passati. Il loro set è stato svolto con impeto ed efficacia, con buoni ritmi e linee melodiche che soprattutto la chitarra di Alessandro Tedesco ha reso evidenti e propositive. Sotto la protezione della GoDown Records che ha pubblicato il disco di debutto e che pubblicherà il nuovo previsto per il prossimo autunno (e della cui fondazione fa parte Max, batterista degli Ananda Mida), questi baldi guivani si sono fatti valere ed hanno scaldato nella maniera giusta il pubblico che li ha applauditi convintamente.
Dallo small stage si passa subito al main stage, in un’alternanza che sarà il leitmotiv principale della serata, e da una psichedelia piuttosto colorata si passa velocemente alle oscurità delle viscere terrene, all’occultismo più fumante. Ed è ancora l’Italia protagonista grazie ai parmigiani Caronte e grazie al loro doom sulfureo che, a dire il vero, poco si confà con le luci naturali ancora presenti nel tardo pomeriggio. Tutto ciò però non intaccca minimamente la performance della band, che fa della serietà la loro caratteristica preponderante, oltre alla presenza ed alla voce imperiosa di Dorian, capace di destreggiarsi tra clean possente e raccolto dal profondo, e vocalità più estreme senza mai perdere l’equilibrio e le redini. Molto buono anche l’accompagnamento, con i conueti ritmi medio-assi che penetrano nel profondo.
Dall’apparente immobilismo e staticità dettati dai Caronte, si prosegue con l’esatto opposto. Gli americani Ruby The Hatchet, alle loro prime esperienze live in Italia, ci fanno letteralmente muovere i corpi, grazie a sound vigorosi e disinolvti che ci colpiscono fin dal primo brano. Il loro ultimo lavoro ‘Planetary Space Child’ è dell’anno passato, e la band ne propone live una buona parte, con la voce e le movenze della bionda Jillian Taylor a rapire i presenti che si dimostrano subito estasiati; ma oltre a lei è fondamentale la loro musica, quel sound vintage rock che la chitarra di Johnny Scarps e soprattutto l’organo di Sean Hur contibuiscono a creare, inebriandoci e facendoci scuotere con sana prepotenza, coaudiuvati in maniera egregia dalle ritmiche di batteria di Owen Stewart, che si dimostra sempre ad alti livelli e che con la sua costanza ci fa rimanere sempre concentrati e fissi sul punto principale, quel punto caratterizzato da una band che dal vivo riesce a provocare scintille incandescenti.
Palco principale, la storia del noise rock internazionale, gli Unsane, e solo la loro presenza è sinonimo di decibel dai valori illegali per i comuni mortali. 45 minuti di set e anche più, dove le pause e le ballad sono assolutamente vietate, essendo per loro sinonimo di vilipendio alla bandiera del rumore organizzato. Come al MusicaW Festival di Castellina Marittima qualche giorno prima, anche a Francavilla le casse e gli amplificatori vengono messi a dura prova dalle bordate sonore del trio americano, dimostrando (se ce ne fosse ancora bisogno) che l’età non conta quando la passione prevale su tutto. Dalla voce e chitarra affilate come pregiate spade samurai di Chris Spencer, alla concretezza del basso di Dave Curran, fino alla devastazione composta della batteria di Vinnie Signorelli, tutto è perfettamente martellante, e durante i pezzi pregiati del loro repertorio come “Against The Grain” e “Scrape” la situazione in transenna e nelle file retrostanti ha fatto tremare la terra.
E dopo la scarica fumante di watt che ha messo in forte tensione i nostri timpani, sembrava ideale il momento di lenire le nostre “sofferenze” con del dolce miele per le nostre cavità auricolari. Un miele dal sapore lisergico e profumato, che solo gli immensi Yawning Man sanno spalmare. Il nuovo album ‘The Revolt Aganist Tired Noises’ uscito poco tempo fa per Heavy Psych Sounds Records, è l’ennesima perla di un’esperienza musicale trentennale sempre di valore assoluto, e i Nostri non si sono fatti mancare l’occasione per saziarci di quella psichedelia infinita che solo loro sanno donare. Gary Arce, Greg Saenz e l’icona Mario Lalli al basso donano una prova ancora una volta di encomiabile naturalezza e bellezza, facendoci viaggiare dall’inizio alla fine e nutrendoci del loro sound ad occhi chiusi e mente spalancata. Lalli al basso è semplicemente meraviglioso, il suo tocco lo si può intuire a chilometri di distanza, sul palco si trasforma, a differenza di quano lo si nota fuori dal palco dove appare sempre in mezzo alle nuvole. Saenz alla batteria rende i tempi piacevolmente prolungati e tendenti all’infinito; e la chitarra di Gary Arce ci fa volare come su un tappeto persiano guidato dal più maestoso genio della lampada. Un live degli Yawning Man potrebbe durare anche diverse ore, che non ci stancheremmo mai di apprezzare ed elogiare.
Dopo un giro di perlustrazione tra gli stand di dischi e magliette, precisi come un orologio svizzero, arriva il turno dei GBH a menare il can per l'aia con il loro marchio di fabbrica, l’hardcore punk molto rockeggiante; nonostante la veneranda età sono arrivati in ottima forma e hanno profuso energia come se non ci fosse un domani. Lo show è stato una dimostrazione di forza, hanno iniziato rockeggiando e sono andati via via in crescendo verso l'hardcore più tellurico. Old School never surrender.
Poco prima della fine del set dei GBH, alcuni ragazzi cominciano già ad assieparsi a bordo palco dello small stage per poter assistere in posizione ravvicinata ed in maniera viscerale al live dei Rome, che spezzano completamente l'irruenza dell'hardcore dei GBH con un neofolk melodicizzato che molto deve al sound dei Death in June e dei Current 93, anche se è da ascrivere a Jerome Reuter una maggiore espressivita e profondità della voce. Formazione a tre elementi (due chitarre e timpani) con il leader che si stagliava sul palco e magnetizzava il pubblico con la sua voce profonda, declamatoria, stentorea. La mancanza delle tastiere e degli archi ha ridotto l'atmosfera accentuandone la marzialità; purtroppo, alcuni personaggi nel pubblico non hanno capito che non si trattava di un concerto metal dove il volume copre ogni voce e non hanno perso occasione per elucubrare lungo la maggior parte del set, facendo perdere la concentrazione e l'enfasi che il sound dei Rome regala: humano fallace est. In definitiva alle esibizioni dei Rome manca l'enfasi e l'atmosfera che i dischi emanano ma probabilmente è da ascriversi alla formazione a ranghi ridotti che il leader si è portato dietro.
Arriva il clou della serata: Igorrr, il pico della mirandola del baroquecore che suscita reazioni contrastanti: dall’adorazione allo sdegno, ma d'altronde un artista che fonde death metal, elettronica, trip hop, classica, musica tzigana, rondò veneziano e chi più ne ha più ne metta, non può che far storcere il naso ai puristi e ammaliare gli sperimentatori ed a chi piace abbattere le frontiere del già sentito. Naturalmente il disco più saccheggiato è stato l’ultimo lavoro ‘Savage Sinusoid’ tra cui “Viande” il brano che ha calamitato il pubblico nonché quello che la maggior parte degli astanti aspettavano a giudicare dalla reazione e dal coinvolgimento in un vorticoso headbanging. La vocalist si è dimostrata più dotata e più performer del suo alter ego maschile, sia nel senso teatrale del termine che dal punto di vista dell’ugola; Laure Le Prunenec ha letteralmente divelto/scartavetrato/svellutato/sverniciato il vocalist, vestito da yeti, più statico e meno in palla rispetto al concerto di questo inverno a firenze, che si è parzialmente risollevato nelle parti growl. Si muoveva sul palco al ritmo dei breakbeat che il mastermind Gautier Serre creava smanettando dietro la consolle ed aizzando i fan gesticolando con la mano alzata tipico di chi suona la musica techno. La batteria triggerata era molto devastante grazie ad un impianto di amplificazione, ci si perdoni il francesismo: coi controkazzi. Senza compromessi. Riflessione finale sul festival: timing perfetto, cambi palco senza complicazioni tecniche, sound eccezionale mai oltre quei volumi ai quali spesso ci siamo dovuti sottoporre e che rendono quasi sordi; un must consigliatissimo per la prossima stagione sia per organizzazione che per qualità del bill. Complimenti all’organizzazione.
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