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KAIPA: VITTJAR

data

10/09/2012
67


Genere: Progressive Rock
Etichetta: Inside out
Distro:
Anno: 2012

Negli anni 70, come ben sappiamo, Inghilterra e Italia rappresentavano il meglio del meglio a livello squisitamente "progressivo", con tutto il resto dell'Europa che stava a guardare (a parte la Germania che con la sua Kosmic Music stava piano piano prendendo piede). Paesi come Svezia o Danimarca da parte loro non avevano certo un grande movimento prog, se eslcudiamo gruppi come Wigwam, o Burnin Red Ivanhoe (forse il miglior gruppo di tutto il panorama scandinavo), e difatti i Kaipa arrivano direttamente da quel periodo e da quel particolare contesto geografico/storico. Attivi fin dalla metà degli anni 70, i Kaipa propongono subito una personale e discretamente originale mistura di folk tipicamente scandinavo e partiture prog, con testi cantati direttamente in lingua madre. Il gruppo pubblica dischi in modo un po' discontinuo, riuscendo però a sopravvivere fino ad oggi e pubblicando recentemente questo 'Vittjar', un disco mixato in maniera eccellente, suonato con grande perizia e classe, ma che purtroppo non riesce a toccare il cuore dell'ascoltatore. Il gruppo dimostra infatti un 'incredibile tecnica strumentale, sciorinando cambi di tempo e assoli chitarristici davvero complessi dove, tuttavia, i musicisti sembrano quasi voler ostentare a tutti i costi le proprie capacità strumentali. In questo album lo stile del gruppo sembra ricordare a più riprese lo stile medioevale e folkeggiante dei Gentle Giant(chiaramente con le dovute eccezioni) con armonizzazioni vocali e atmosfere riconducibili, invece, a cose più vicine agli Yes. Le due tracce iniziali, "First Distraction" e "Lightblue And Green" presentano delle tipiche atmosfere bucoliche ricostruite attraverso l'uso del flauto e delle tastiere, con poderosi inserti di chitarra elettrica e fraseggi di violino che ogni tanto appaiono sullo sfondo, sorretti da una voce (quella di Lundström Patrik ) decisamente tecnica, ma a tratti davvero poco emotiva. L'esasperazione tecnica/strumentale arriva però dalla suite "Our Silent Ballroom Band" (ventidue minuti), introdotta ottimamente dalla voce della cantante Aleena Gibson che ben presto lascia spazio alle tastiere ed alla voce di Lundström ed alle sue melodie. La suite si basa essenzialmente su una gran quantità di intrecci strumentali tra chitarra e tastiera (tirati davvero troppo per le lunghe), e su soluzioni melodiche un tantino noiose e impalpabili. Che si trattasse di mero esercizio di stile però lo si avvertiva già dalle prime note, e il lungo assolo di chitarra (cinque minuti circa), posto in chiusura della suite non fa altro che avvalorare questa tesi. Il brano che dà il nome al disco è senza dubbio quello più interessante grazie anche all'uso della lingua madre che, come cadenza e musicalità, si sposa davvero molto bene con le atmosfere folk del brano, anche se il tutto appare davvero troppo laccato e freddo, cosa avvertibile anche in brani come in "Treasure House" e "A Universe of Tinyness", quest'ultimo a tratti interessante per le atmosfere acustiche che riesce a scaturire. La sensazione che pervade l'ascoltatore alla fine di questo disco è come di un qualcosa suonato con grande classe e professionalità, ma che a causa di una certa prolissità e ostentazione tecnica generale non riesce a dare particolari emozioni, denotando quindi un certo distacco emotivo.

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