DRIVE BY WIRE: Spellbound
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13/03/2018A due anni di distanza dal buon ‘The Whole Sheband’, tornano alla carica gli olandesi Drive By Wire, forti dell’accordo con l’italiana Argonauta Records e determinati nel compiere un ulteriore evoluzione al proprio sound, nonché al proprio bacino d’utenza. Ci sono parecchie band, in Europa e nel resto del mondo, che propongono blues di matrice anni’60-’70, stoner caro ai progenitori del genere come Kyuss e affini, e rock classico di stampo prevalentemente analogico, che possiedono presenze femminili alla voce, e tutte in media di buona qualità, con determinati picchi che emergono. I Drive By Wire, con questo nuovo album ‘Spellbound’, il quarto album del quartetto di Deventer, puntano molto sulla voce di Simone Holsbeek, che si fa notare con una buona presenza. L’album inizia col piglio giusto con “Glider”, in cui si nota sin da subito la spigliatezza della voce di Simone Holsbeek, che affronta a viso aperto il microfono e produce calde atmosfere. Il sound della band, così corposo di territori a cavallo tra stoner, blues e tocchi di psych, risulta notevolmente ampio e strutturato, soprattutto quando si affrontano le parti di ritornello e il cuore vero di ciascun pezzo. Come nel tipico rock settantiano che si rispetti, non mancano pezzi dove le ritmiche fanno muovere l’ascoltatore, provando sensazioni che suscitano trasporto autentico: uno di questi pezzi è “Mammoth”, che già dall’inizio ti trascina, e che verso la metà si ampia ulteriormente con un riffone di chitarra di Alwin Wubben che lo eleva ai più alti livelli. Un altro pezzo dove non si dovrebbe fare a meno di battere i piedi e le mani a tempo è “Blood Red Moon”, che inizia con un assolo vocale di Simone, che ricorda molto (anche se con le dovute differenze timbriche e di ampiezza) l’attacco live di “Devil Man” di Elin Larsson e dei suoi Blues Pills, e si struttura poi con sonorità intriganti e ritmiche implacabilmente regolari. Queste sensazioni di trasporto garantito le troviamo corpose durante lo scorrere dell’album, con pezzi come “Van Plan” e “Lost Tribes”, prima di tornare allo stoner-fuzz dai chiari sentori à la Black Rainbows con “The Devil’s Fool”, dove le chitarre dense, veraci e pregne di sonorità analogiche si accompagnano con la batteria dai suoni settantiani di Jerome Miedendorp de Bie e le atmosfere vocali della Holsbeek. Non solo stoner-blues di stampo classico, ma in ‘Spellbound’ troviamo anche tocchi psichedelici presenti in maniera importante, in particolare in un paio di circostanze: con “Apollo”, dove la calda voce della Holsbeek si incontra a braccetto con un sound relativamente tranquillo, ma allo stesso tempo sognante; e soprattutto con “Lifted Spirit”, dove la psichedelia sognante raggiunta qualche minuto prima, con la Holsbeek che traccia linee vocali che trasudano dolcezza, a cui sulla stessa frequenza si affianca la chitarra di Wubben che effettua tocchi molto vellutati, si trasforma in un’esplosione sonora che completa e satura l’intera stanza dove noi ascoltiamo, con la Holsbeek e Wubben che gettano il cuore oltre l’ostacolo e si liberano di tutti i lacci e le catene per sprigionare, assieme alla forza ritmica di Miedendorp de Bie, una costruzione sonora che dal vivo non lascerà superstiti. I Drive By Wire riescono a compiere un bel passo avanti nel segno non soltanto delle musiche prodotte, ma anche di un’ispirazione dalle ampie garanzie. Con quest’album la band può avere la capacità di realizzare che possono avere riscontri ancora più importanti di quelli che attualmente hanno, grazie ad un sound convinto e convincente, sapendo bene quindi di poter contribuire ad un movimento che negli ultimi anni è diventato sempre più competitivo a livello internazionale, ma che bisogna saper farsi emergere. Se la direzione futura della band è quella incanalata con ‘Spellbound’, allora gli auspici sono incoraggianti.
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