BILLY IDOL
Dopo oltre 35 anni ancora sulla breccia, l'inglese William Michael Albert Broad, divenuto americano di adozione, è vivo, vegeto, scalciante ed in forma strepitosa (vicinissimo ad avere il six pack= tartaruga agli addominali); si presenta sul palco in stile dark anni '80 con tanto di pantaloni in latex, e dopo il warm up iniziale l'ex punkster lancia la retata dei pezzi storici che inizia con "Cradle Of Love". "Dancing with Myself" ha avuto una prestazione vocale non proprio all'altezza dell'originale, ma ha fatto muovere le chiappe di tutta la platea che si è ulteriormente fomentata con "Flesh for Fantasy", continuando nell'ondeggiamento, in questa rendition leggermente differente dall'originale l'hanno fatta da padrone gli assoli ed il wah-wah del fido Steve Stevens, in versione ultra glam con leggings militarizzati e parruccone cotonato quasi oltre il pacchiano, Billy ometteva volutamente di cantarla nei ritornelli per ascoltare il livello di partecipazione del pubblico. Un paio di pezzi lenti per ricaricare le batterie e si riparte in velocità con "Ready Steady Go", Mr. Idol continua a spronare il pubblico con le sue incitazioni, ma il pubblico italiano non è paragonabile a quello americano che si scalda con gli "hey", o esclamazioni simili, tanto che dopo una lunga elucubrazione, non avendo ricevuto il feedback sperato, conclude con un pertinente: what the fuck. Riparte con una versione acustica di "Sweet 16" e la reazione degli astanti è stata veemente e pronta. Energia, sudore, motivazione, trasporto, dedizione, tutto ciò che è mancato ai Queens Of The Stone Age presenti su questo stesso palco qualche giorno prima; il set continua con uno dei brani più conosciuti: "Eyes Without A Face" rimaneggiata, ma sempre riconoscibile, "City Of Lights" ha subito una macerazione lenta di tipo doorsiano. Steve Stevens (che ha cambiato almeno 6/7 chitarre durante il set), ci fulmina con un esibizione di tecnica che è passata da riff sparatissimi ad arpeggi di grandissimo livello tecnico permettendo al singer di rifiatare nel camerino. Al rientro "Blue Highway" un altro grande esempio di rock; così ci avviciniamo alla chiusura del set che non poteva che spettare a "Rebel Yell" e tutti a spintonarsi, fare headbanging e sprizzare divertimento da tutti i pori. Quando pensavamo che fosse finita ecco rientrare il biondo platinato e proporci il bis con "White Wedding", altra goduria pura, e "Mony Mony" amplificato dalla cazzaraggine, dal parossismo dall'american way of life di un rocker inossidabile che neanche un serissimo incidente di moto è riuscito a fermare.
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