SOLSTAFIR: ÓTTA
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02/09/2014Cosa vuol dire essere fan di un gruppo? Prendere per oro colato anche le peggiori flatulenze o interessarsi veramente a quanto prodotto con spirito curioso, attento e soprattutto critico? Se la vediamo nel primo senso, chi scrive non è affatto un fan dei Sólstafir. Se la vediamo nel secondo, che sembra quello esatto, allora la situazione si capovolge. Gli islandesi sono tra i gruppi più coraggiosi dell'ultimo decennio, riconosciamo il loro valore pur non amando la loro intera discografia. A parte il vichingo esordio, i due successivi lavori ci erano sembrati troppo acerbi, di transizione. Già col doppio disco del 2011 erano arrivati a un nuovo livello, ma è 'Ótta' che permette loro di fare il vero e definitivo salto verso un'altra dimensione, un altro pubblico forse. Il metal lo lasciamo lontano, chiuso in uno scrigno e buttato a mare. Si sente in lontananza una batteria che solo molto sporadicamente si lascia andare a ritmiche più o meno estreme. L'anima dell'album è nello sguardo del vecchio in copertina, a sua volta riflesso del mare in tempesta. Profondo, a tratti viscerale, meditabondo e come al solito estremamente originale. Ha in comune con l'ultimo degli Empyrium la voglia di abbattere le barriere del metal e del rock. Anche il modo di cantare è diverso, sempre più veicolo dell'interiorità di una band che ha fatto finalmente il passo decisivo. Archi e tastiere sono decisivi, così come le levigate distorsioni della chitarra piene di echi post rock, che da sole riescono a tenerti in bilico su un abisso di malinconia e inquietudine, versante Pink Floyd. Ci capita spesso di non riuscire a smettere di ascoltare un cd: stavolta si potrebbe davvero metterlo in loop fino a Natale. Disco e copertina dell'anno? Con tutta probabilità.
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